Negli ultimi post di Andreas e di Manuela viene tirato in ballo lo scarso livello di competenza degli italiani con le lingue straniere, in particolare con l'inglese. Questo è un problema che mi sta molto a cuore non solo come insegnante perché sono specialista (cioè insegno solo inglese in 8 classi, circa 150 alunni) nella scuola primaria ma anche come persona che quel poco di inglese che sa lo ha imparato con corsi a pagamento extrascolastici da adulta.
In base alla mia esperienza le cause della scarsa conoscenza della lingua inglese nella popolazione italiana sono di duplice natura, la prima è relativa alla politica scolastica ministeriale e l’altra a fattori metodologici dell’insegnamento.
L’inglese è l’ultima disciplina introdotta obbligatoriamente nel 1990 nella scuola primaria, allora elementare, (non prendo in considerazione l’informatica perché ora è trasversale e quindi non viene considerata più come disciplina a se stante). Il suo insegnamento è stato affidato in larga parte a insegnanti formati all’interno della scuola con corsi abilitanti o abilitati attraverso concorsi.
Questi insegnanti nel corso di due decenni hanno formato una loro professionalità basata sulla sperimentazione in classe, sull’aggiornamento, sulla specializzazione.
Nel 2003, quando ministro dell’istruzione era la Moratti , è stato organizzato un piano di rientro di questi insegnanti specialisti che venivano considerati una spesa inutile per la scuola italiana.
Per rientro intendo dire che torneranno ad insegnare tutte le materie in una o due classi.
Questo piano è ancora in atto ed è stato potenziato dallo scorso anno con alcune misure del ministro Gelmini in cui si parla di obbligatorietà per tutti i docenti in servizio di conseguire l’abilitazione all’inglese e di insegnarlo nelle loro classi.
Chi è esterno alla scuola primaria non capisce la portata e le conseguenze di questa politica che toglie ad insegnanti esperte che da molti anni insegnano inglese la competenza del loro insegnamento e le rimanda in classe ad insegnare matematica o italiano senza averne più le competenze necessarie. Allo stesso tempo il problema si presenta rovesciato con le colleghe “generaliste” che devono frequentare un corso obbligatorio (non retribuito) e insegnare nelle loro classi inglese anche se non se la sentono. Vi sembra questa una politica di qualità ? per me no, ma non è neanche una politica di risparmio perché per formare nuove insegnanti che sostituiranno quelle già esperte si stanno spendendo miliardi di euro in tutta Italia, miliardi che potevano essere spesi in altro modo, per esempio per innalzare il livello professionale delle specialiste con corsi all’estero o altro.
Ma non finisce qui, la Comunità Europea dal 1995 ha adottato una politica di promozione del plurilinguismo per promuovere l’acquisizione almeno di un’altra lingua europea. In Italia è stato recepito solo a livello di scuola media con l’introduzione di 2 ore settimanali di una seconda lingua a scelta. Tolti i licei linguistici nella scuola superiore non vi è traccia di questa seconda lingua e il ministro Gelmini lo scorso anno ha addirittura proposto nella scuola media “l’inglese potenziato” cioè la possibilità di fare 2 ore in più di inglese invece che di spagnolo o francese o tedesco. Un ricorso alla comunità europea ha bloccato questa possibilità perché contraria alle direttive comunitarie, ha messo però in evidenza la bassa qualità della politica linguistica italiana. Mentre in Europa si dà come scontata l’acquisizione dell’inglese come lingua di comunicazione internazionale e si parla di promozione della “lingua del cuore” (seconda lingua straniera) per coltivare sentimenti e interessi, in Italia ci dobbiamo ancora arroccare sull’inglese.
Un passo indietro e torniamo al ministro Moratti che ha stipulato una convenzione con gli enti certificatori esterni alle scuole (Cambridge, Trinity College ecc.) affinché le certificazioni che essi rilasciavano a pagamento avessero un riconoscimento a livello universitario. Che bello!! Tutti felici, ma quali sono state le conseguenze pratiche? Tutte le scuole medie, secondarie e persino le primarie si sono attivate a far certificare competenze, sono diventate centro esami di questi enti e pagando hanno e stanno ricevendo certificazioni a non finire ( non voglio aprire il capitolo business che c’è dietro). Che c’è di male direte voi? C’è, perché quando lo studente va all’università invece di continuare a studiare inglese presenta la sua bella certificazione conseguita anni prima e viene esonerato dal sostenere l’esame. Io stessa mi sono trovata a frequentare corsi con neolaureati che consapevoli del fatto di non sapere l’inglese pagavano dopo la laurea corsi privati.
Vi sembra una politica giusta questa? Quando lo puoi studiare gratis ti fai certificare per fare prima e poi se hai i mezzi paghi, se hai la fortuna di averli altrimenti rimani ignorante!!
Passiamo alle questioni di natura metodologica in cui gli insegnanti hanno sicuramente più responsabilità. Quanto cita Manuela rispetto all’apprendimento scolastico precoce non ha fino ad ora una dimostrazione scientifica. Spesso viene confuso con l’acquisizione naturale di due lingue, cioè il bilinguismo, che studi scientifici dimostrano avvengano interessando la stessa parte del cervello, mentre una acquisizione di una lingua straniera di tipo scolastico interessa un’altra zona del cervello. E’ chiaro che affinché ci sia bilinguismo ci deve essere acquisizione precoce, ed esposizione contemporanea, ma questa è un’altra storia.
Una ricerca di una università inglese, di cui mi sfugge il nome ,effettuata in comparazione tra due gruppi di studenti, uno con inizio precoce dell’apprendimento linguistico l’altro con inizio a 9-10 anni sostiene che all’uscita della scuola superiore i livelli degli apprendimenti siano gli stessi.
Io comunque sono favorevole all’apprendimento precoce perché al termine della scuola primaria anche se i bambini non parlano inglese acquisiscono un bel bagaglio lessicale, chunk linguistici che poi ritrovano sulle pubblicità, su internet, nei videogiochi, acquisiscono anche un minimo automatismo nella lettura che permette loro di leggere applicando la pronuncia inglese e non quella italiana e riescono a capire il senso di semplici frasi pur non conoscendone tutti i termini, per bambini di 11 anni non mi pare così poco. Inoltre la lingua va vista anche come veicolo culturale, se non imparano a parlare almeno apprenderanno che esiste una cultura con tradizioni e usi diversi dai loro.
Tornando al metodo, è risaputo che le lingue si apprendono praticandole e quando vi iscrivete a un corso privato la prima cosa che vi dicono è il numero massimo di partecipanti, 10 massimo 12, sono già parecchi. Come si può pensare che in una classe di qualsiasi ordine scolastico si possa raggiungere anche con il metodo più efficace la stessa prestazione con classi da 25 alunni?
Il numero in questi casi è determinante, dividete un’ora per 12 e avrete 5 minuti di speaking a testa dividete per 25 e ne avrete 2, 4 e se ci mettete la spiegazione, la correzione dei compiti, le verifiche, gli esercizi quanti diventano? Mi sembra facile capire che questo è un problema serio, il miglior metodo e le migliori intenzioni vengono vanificate. Una speranza in questo senso è stata rappresentata dal CLIL (Content and Language Integrated Learning) cioè l’insegnamento di una disciplina in lingua inglese. Corsi di aggiornamento a non finire, progetti, speranze, però anche qui la sporadicità dell’esperienza ne limita molto i benefici. Fare un progetto di 10 ore di CLIL certo è meglio che non farlo però non è risolutivo. Il CLIL è un ottimo sistema, l’ho potuto sperimentare personalmente per un anno insegnando all’estero in una scuola bilingue italiano-spagnolo, alla fine dei 5 anni i bambini parlavano e scrivevano bene tutte e due le lingue, però il loro tempo scuola era equamente diviso tra le due.
Mettiamoci poi anche la componente motivazione, di solito sei motivato ad imparare cose che ti servono per uno scopo. La motivazione ad apprendere sale se ci sono occasioni in cui sei in contatto con gente che non parla la tua lingua e con cui vuoi comunicare. Ancora nella scuola italiana mancano un po’ queste occasioni, ci sono molte buone pratiche, partnerariati con scuole estere, Erasmus universitari, scambi di alunni e docenti, gemellaggi elettronici (eTwinning) ma sono ancora relegati in nicchie educative ed affidati alla buona volontà di docenti che si spendono senza riserve per la loro professione. Se queste prassi non usciranno dalla sporadicità e se la politica nazionale non cambierà non ci sarà l’innalzamento auspicato.
1 commento:
Ho letto ed apprezzato le tue parole sulla situazione della lingua straniera all'interno della scuola primaria.Insegno nella scuola primaria,sono ancora precaria, prima ero specialista e ora sono tornata ad insegnare altre discipline quindi ho vissuto sulla mia pelle tutte queste "riforme" e condivido le tue osservazioni e spero che qualcosa cambi.
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