giovedì 31 dicembre 2009

ABOUT ENGLISH





Negli ultimi post di Andreas e di  Manuela viene tirato in ballo lo scarso livello di competenza  degli italiani  con le lingue straniere, in particolare con l'inglese. Questo è un problema che mi sta molto a cuore non solo come insegnante perché sono specialista (cioè insegno solo inglese in 8 classi, circa  150 alunni) nella scuola primaria  ma anche come persona che quel poco di inglese che sa lo ha imparato con corsi  a pagamento extrascolastici da adulta.
In base alla mia esperienza  le cause  della scarsa conoscenza della lingua  inglese nella popolazione italiana  sono di duplice natura, la prima è relativa alla politica  scolastica  ministeriale e l’altra a fattori metodologici dell’insegnamento.
L’inglese  è l’ultima disciplina introdotta obbligatoriamente  nel 1990  nella scuola primaria, allora elementare,  (non prendo in considerazione l’informatica perché ora è trasversale e quindi non viene considerata più come disciplina a se stante). Il suo insegnamento è stato affidato in larga parte a insegnanti formati all’interno della scuola con corsi abilitanti o  abilitati attraverso concorsi.
Questi insegnanti nel corso di  due decenni   hanno  formato una loro professionalità  basata  sulla sperimentazione in classe, sull’aggiornamento, sulla specializzazione.
Nel 2003,  quando ministro dell’istruzione era la Moratti, è stato   organizzato un piano di rientro  di questi insegnanti specialisti che venivano considerati una spesa inutile per la scuola italiana.
Per rientro intendo dire che torneranno ad insegnare tutte le materie in una o due classi.
Questo piano è ancora in atto  ed è stato potenziato dallo scorso anno con alcune misure del ministro Gelmini in cui si parla di obbligatorietà per tutti i docenti in servizio  di conseguire l’abilitazione all’inglese e di insegnarlo nelle loro classi.
Chi è esterno alla scuola primaria non capisce  la portata e le conseguenze  di questa politica che  toglie ad insegnanti  esperte che da  molti anni insegnano inglese  la competenza  del loro insegnamento e le rimanda in classe ad insegnare matematica o  italiano senza averne più le competenze necessarie. Allo stesso tempo  il problema si presenta rovesciato con le colleghe  “generaliste” che  devono frequentare un corso obbligatorio (non retribuito) e insegnare nelle loro classi inglese anche se non se la sentono. Vi sembra questa una politica di qualità ? per me no, ma non è neanche una politica di risparmio perché per formare nuove insegnanti che sostituiranno quelle  già esperte si stanno spendendo miliardi di euro in tutta Italia, miliardi che potevano essere spesi in altro modo, per esempio  per innalzare  il livello professionale delle specialiste con  corsi all’estero o altro.
Ma non finisce qui, la Comunità Europea  dal  1995 ha adottato una politica di promozione del plurilinguismo   per promuovere  l’acquisizione almeno di un’altra lingua  europea. In Italia è stato recepito solo a livello di scuola media con l’introduzione di  2 ore settimanali  di una seconda lingua a scelta. Tolti i licei linguistici nella scuola superiore non vi è  traccia di questa seconda lingua e il ministro Gelmini lo scorso anno ha addirittura proposto  nella scuola media  “l’inglese potenziato” cioè la possibilità di  fare 2 ore in più di inglese invece che di  spagnolo o francese o tedesco. Un ricorso alla comunità europea ha bloccato questa possibilità perché contraria alle direttive comunitarie, ha messo però in evidenza  la bassa qualità della politica  linguistica italiana. Mentre in Europa  si dà come scontata l’acquisizione dell’inglese come lingua di comunicazione internazionale  e si parla di promozione della  “lingua del cuore” (seconda lingua straniera) per coltivare sentimenti e interessi, in Italia ci dobbiamo ancora arroccare sull’inglese.
Un passo indietro e torniamo al ministro Moratti che  ha stipulato una convenzione con gli enti certificatori esterni alle scuole (Cambridge, Trinity College ecc.) affinché  le certificazioni che essi rilasciavano a pagamento avessero un riconoscimento a livello universitario. Che bello!! Tutti felici, ma quali sono state le conseguenze pratiche?  Tutte le scuole medie,  secondarie e persino le primarie si sono attivate a far certificare competenze, sono diventate centro esami di questi enti e pagando hanno  e stanno ricevendo certificazioni a non finire ( non voglio aprire il capitolo business che c’è dietro). Che c’è di male direte voi? C’è, perché quando lo studente va all’università invece di continuare a studiare  inglese presenta la sua bella certificazione  conseguita anni  prima e  viene esonerato dal sostenere l’esame. Io stessa mi sono trovata a frequentare corsi con neolaureati che  consapevoli del fatto di non sapere  l’inglese pagavano dopo la laurea corsi privati.
Vi sembra una politica giusta questa? Quando lo puoi studiare gratis ti fai certificare  per fare prima e poi se hai i mezzi paghi, se hai la fortuna di averli altrimenti rimani ignorante!!

Passiamo alle questioni di natura metodologica in cui gli insegnanti hanno sicuramente più responsabilità. Quanto  cita   Manuela rispetto all’apprendimento scolastico  precoce  non ha  fino ad ora una dimostrazione scientifica. Spesso viene confuso con l’acquisizione naturale  di due lingue, cioè il bilinguismo, che studi scientifici dimostrano avvengano interessando la stessa parte del cervello, mentre una acquisizione di una lingua straniera di tipo scolastico interessa un’altra zona del cervello.   E’ chiaro che affinché ci sia bilinguismo ci deve essere acquisizione precoce, ed esposizione contemporanea, ma questa è un’altra storia.
 Una ricerca di una università inglese,  di cui   mi sfugge  il nome ,effettuata in comparazione tra due gruppi di studenti, uno con inizio precoce dell’apprendimento linguistico l’altro con  inizio  a 9-10 anni sostiene  che  all’uscita della scuola superiore  i livelli degli apprendimenti siano gli stessi.
Io comunque sono favorevole all’apprendimento precoce perché al termine della scuola primaria anche se i bambini  non parlano inglese acquisiscono un bel bagaglio lessicale, chunk linguistici  che poi ritrovano   sulle  pubblicità, su internet, nei videogiochi, acquisiscono anche  un minimo automatismo nella lettura che permette loro di leggere applicando la pronuncia inglese e non quella italiana e riescono a capire  il senso di semplici frasi pur non conoscendone tutti i termini, per bambini di 11  anni non mi pare così poco. Inoltre la lingua  va vista anche come veicolo culturale, se non imparano a parlare almeno apprenderanno  che esiste una cultura  con tradizioni e usi diversi dai loro.
Tornando al metodo, è risaputo che le lingue si apprendono praticandole e quando  vi iscrivete a un corso privato la prima cosa che vi dicono è il numero massimo di  partecipanti, 10  massimo 12, sono già parecchi. Come si può pensare che in una classe di qualsiasi ordine scolastico si possa raggiungere  anche con il metodo più efficace  la stessa prestazione con classi da  25 alunni?
Il numero in questi casi è determinante, dividete un’ora per  12  e avrete 5 minuti di speaking a testa dividete per 25 e ne avrete 2, 4 e se ci mettete la spiegazione, la correzione dei compiti, le verifiche, gli esercizi  quanti diventano?  Mi sembra facile capire che questo è un problema  serio, il miglior metodo e le migliori intenzioni  vengono vanificate.  Una  speranza  in questo senso è stata rappresentata dal CLIL (Content and Language Integrated Learning) cioè l’insegnamento di una disciplina in lingua inglese. Corsi di aggiornamento a non finire, progetti, speranze, però anche qui la sporadicità  dell’esperienza ne limita molto i benefici. Fare  un progetto di 10 ore di CLIL  certo è meglio che non farlo però  non è  risolutivo. Il CLIL è un ottimo sistema, l’ho potuto sperimentare personalmente per un anno insegnando all’estero in una scuola bilingue italiano-spagnolo, alla fine  dei  5 anni i bambini parlavano e scrivevano bene tutte e due le lingue, però il loro  tempo scuola  era equamente diviso  tra le due.
Mettiamoci poi anche  la componente motivazione,  di solito sei motivato ad imparare  cose che ti servono per uno scopo. La motivazione ad apprendere sale se ci sono occasioni  in cui   sei  in contatto  con gente che non parla la tua lingua  e con cui vuoi comunicare. Ancora nella  scuola italiana mancano un po’ queste occasioni,  ci sono molte buone pratiche, partnerariati  con scuole estere, Erasmus universitari, scambi  di alunni e docenti, gemellaggi elettronici (eTwinning) ma sono ancora relegati   in nicchie educative ed affidati alla buona volontà di docenti  che si spendono senza riserve  per la loro professione. Se queste prassi non usciranno dalla sporadicità  e se la politica nazionale  non cambierà non ci sarà  l’innalzamento auspicato.

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1 commento:

Antonella ha detto...

Ho letto ed apprezzato le tue parole sulla situazione della lingua straniera all'interno della scuola primaria.Insegno nella scuola primaria,sono ancora precaria, prima ero specialista e ora sono tornata ad insegnare altre discipline quindi ho vissuto sulla mia pelle tutte queste "riforme" e condivido le tue osservazioni e spero che qualcosa cambi.